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RAN
(RAN)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 24 ottobre 1985
 
di Akira Kurosawa, con Tatsuya Nakadai, Mieko Harada, Akira Terao, Daisuke Ryu (Giappone, 1985)
 
Ran è un vecchio sogno dell'autore di Rashomon, quello di adattare allo schermo, ed all'ambiente delle leggende dei samurai, il dramma del Re Lear shakespeariano.

Si dice che il film precedente di Kurosawa, Kagemusha, Palma d'Oro a Cannes 5 anni fa, non fosse che il canovaccio, una specie di prova d'assieme per questo testamento del grande giapponese. Non è molto vero: e non solo perché il progetto di questo Re Lear è precedente a Kagemusha. Ma perché i due film hanno in comune solo una parte dell'estetica, e in modo particolare le celebri battaglie. Per il resto Kagemusha basava la sua ragione d'essere su un'idea di continuità: per mantenere il potere, per mantenere l'ordine i signori evitavano di pubblicizzare la notizia della morte del capo. Arrivando a creare un sosia che illudesse amici e, soprattutto, nemici di una presenza immutabile nel tempo.

Ran (che infatti significa "caos") sostiene il contrario: quando il vecchio Re Lear (o Hidetora, se preferite) spartisce il proprio regno fra i suoi tre figli (mentre nel dramma di Shakespeare si trattava di figlie) egli scatena una violenza che diventerà non solo parricida. Ma che si caricherà di significati così universali da trasformarsi in visione apocalittica, in apologo sicuramente non ottimista sul divenire della nostra civiltà.

Ran, come riferito quasi unanimemente dalla stampa internazionale, si esprime con delle immagini di una bellezza raramente espressa sullo schermo. Una bellezza che non solo incanta, ma commuove. Perché ci rende partecipi di un commiato da un certo tipo di cinema, da un certo tipo di bellezza che mai più ritroveremo sugli schermi. Kurosawa è uno degli ultimi inventori di spazi, di proporzioni, di colori che appartengono ad un patrimonio storico. E che servono ormai, come nel caso di John Ford, o di Jean Renoir, ad un riferimento di ordine assoluto.


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